Aldo Capitini e il suo «Colloquio corale»

Opuscolo, supplemento a «Quaderni della Regione dell’Umbria», n. 4, Perugia, dicembre 1974, pp. 5-19, poi in W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri cit.

ALDO CAPITINI E IL SUO «COLLOQUIO CORALE»

Ho accettato ben volentieri l’invito del presidente della Sagra e dell’amico Francesco Siciliani a tenere una breve conversazione su Aldo Capitini e sul suo Colloquio corale prima dell’esecuzione della composizione musicale di Valentino Bucchi costruita su testi di Capitini, non solo perché di Capitini sono stato amico fraterno e a lui debbo, come tanti altri che lo conobbero e lo amarono, sollecitazioni profonde nella mia formazione e nel mio sviluppo, ma perché convinto del suo singolare valore, della sua forte originalità, delle ragioni autentiche del fascino che tuttora proviene dalla sua opera e dal suo esempio vissuto. E mi pare assai significativo che quest’anno, in coincidenza approssimativa con il quinto anniversario della sua morte, la Sagra Musicale Umbra si apra con l’esecuzione di una composizione legata strettamente alla sua opera e con l’esplicito ricordo di lui, che fu certamente la maggiore personalità espressa da Perugia e dall’Umbria in questo secolo.

Cosí Perugia e l’Umbria rendono giustamente onore ad un uomo che, mentre le ha altamente rappresentate nella vita civile e culturale, nazionale e internazionale, ha certamente fatto inconfondibilmente valere nella sua vita e nella sua opera l’accento e la tensione della migliore tradizione perugina ed umbra, è stato appassionatamente legato alla sua città e alla sua terra sia per le sue origini radicate in Umbria (egli discendeva da famiglie contadine umbre e si formò e svolse gran parte della sua vita e della sua attività a Perugia) sia, e piú, per il profondo amore che egli ebbe per la sua città e per la sua terra e che egli espresse sempre, perfino in tante delle immagini piú poetiche dei suoi scritti, dove campeggia la città alta sui colli e sulle valli (Perugia come nuova Gerusalemme da cui inviare il suo messaggio ideale ed attivo), la vista dall’alto sulla pianura, cosí come egli, nelle sue ispirate meditazioni, la vedeva dalla torre campanaria del Municipio o dalla aperta terrazza della sua ultima abitazione in via dei Filosofi, ricavando dai lontani rumori e voci delle domeniche e delle feste popolari un incentivo di singolare freschezza al suo profondo tema e immagine emblematica della «festa».

E a Perugia e da Perugia (innalzata cosí nella storia civile del nostro paese) egli (abbandonata Pisa, dove aveva studiato ed era segretario della scuola Normale Superiore, per non prendere, nel 1933, la tessera del Partito fascista: uno dei casi rarissimi in tal senso e decisione emblematica per il suo fermo coraggio) svolse e promosse la sua fecondissima attività di lotta, di organizzazione, di educazione contro la dittatura, facendosi propagandista e organizzatore (e pagando di persona con una doppia carcerazione) di quel movimento «liberalsocialista» che ebbe in lui, a mio avviso, la direzione ideale piú decisa e originale («massima libertà sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano economico», com’egli scrisse) lontanissima da una posizione di «terza forza»[1].

Perché Capitini fu sempre chiaramente un uomo della sinistra («egli si qualificò «indipendente di sinistra»), un collaboratore e un propugnatore di un’intera trasformazione politico sociale («democrazia diretta con il controllo dal basso e proprietà resa pubblica e aperta a tutti» secondo un’alta sua frase), un rivoluzionario «nonviolento», persuaso della sua solidarietà intera con le classi subalterne e popolari, strenuo avversario del sistema capitalistico-borghese, come fu strenuo avversario di ogni forma di imperialismo colonialismo e razzismo, di ogni oppressione autoritaria e burocratica e quindi anche contrario ad ogni strutturazione del socialismo e del collettivismo sociale in senso autoritario, repressivo della libertà delle idee e delle iniziative ideali e culturali, senza con ciò mai avvicinarsi a quanti, pure in nome della «libertà e del socialismo», possono finire per farsi praticamente sostenitori dell’ordine e del sistema esistente.

E cosí a Perugia fu, dopo la guerra e la liberazione, geniale inventore e promotore di quei Centri di orientamento sociale (C.O.S.) che rappresentavano per lui l’inizio di un potere dal «basso», di un «potere di tutti», di una politica e di una amministrazione che cominci nella libera discussione e decisione di assemblee popolari (uno dei maggiori possibili strumenti di rinnovamento nel nostro paese e una delle «occasioni perdute» dopo i fervidi slanci di novità degli anni immediatamente seguenti alla liberazione).

Capitini dunque fu uomo pratico, organizzatore in lotta contro ogni «chiusura» sia in campo piú strettamente politico e sociale sia in campo civile, culturale, religioso, promuovendo e conducendo in primo piano una strenua lotta in favore di ogni «apertura» (parole sintomatiche di tutta la sua complessa posizione pratico-ideale): basti ricordare la lotta sostenuta in campo religioso (da «libero religioso» e «religioso aperto», come egli si definiva) contro il prepotere della Chiesa cattolica, il suo dogmatismo, la sua concezione di divisione degli uomini in salvi e condannati, la sua tradizionale corresponsabilità con i potenti, la sua ostinata difesa di miti e credenze, non solo inaccettabili per il pensiero laico e moderno di Capitini, ma inaccettabili per l’idea ben capitiniana di una religione nuova ed aperta, capace di unire tutti gli uomini nell’amore (Dio come amore e mai giudice e creatore di inferno e promotore di persecuzioni crudeli in vita e in morte, ma Dio come interno all’uomo e agli uomini, con intuizioni che, nella diversità del pensiero laico e antiecclesiastico di Capitini, possono pur avere ora consonanze, con le nuove spinte di certa teologia nuova, della morte di Dio, come padrone e giudice: Bonhoeffer, Bultmann. Robinson e tanti altri protestanti e cattolici del piú profondo dissenso). Donde la messa all’indice dei suoi libri e la sua scomunica come vitandus.

O basti ricordare ancora (troppo nota è per indugiarvi, troppo nota se persino fu spesso chiamato il Gandhi italiano) la sua centrale attività di promotore e banditore teorico-pratico della non violenza e del suo metodo che ci riporta al centro del suo pensiero, della sua visione della vita e della sua stessa personalità, cosí come della sua tensione espressiva-poetica, le marce della pace, la costituzione del Movimento non violento, l’attività svolta nella pubblicistica non solo con tutte le sue opere, ma con il giornale «Azione nonviolenta».

Ho detto della sua personalità: e come non soffermarsi anzitutto appunto sulla sua personalità umana? Un uomo – qui molti sono che lo conobbero e ne sanno almeno quanto me – che già nel rapporto amichevole (e tale diveniva in realtà ogni vero rapporto con lui) dimostrava concretamente (fra istinto, natura, formazione e autoeducazione) cosa per lui fossero l’amicizia, il contatto con le concrete, singole persone, dimostrava concretamente i valori che egli insieme elaborava e viveva quotidianamente: la bontà inesauribile, il rispetto profondo per gli altri, la lealtà, la sincerità assoluta (non-violenza: non-menzogna), la disponibilità continua ad assumere come propri i problemi altrui, la semplicità schietta con cui egli affrontava il problema piú arduo e le stesse sofferenze personali («tutto si deve fare con semplicità, persino il morire», scriveva, poco prima della morte e già profondamente malato, a mia moglie), e insieme la continua tensione spirituale (tensione, appassionamento e familiarità e semplicità erano le inseparabili sue parole dominanti ad indicare un comportamento umano che egli cosí concretamente viveva), la profonda persuasione nei suoi vissuti valori, la sua pazienza nel convincere, non nel sopraffare, e insieme, la sua intransigenza morale e intellettuale, la sua netta distinzione di valori e disvalori, la severità esigente – pur nella comprensione dei limiti altrui – del suo stesso amore pur cosí illimitatamente aperto e persuaso del valore implicito in ogni essere umano (e persino in qualche modo negli animali, quelli che chiamava «i nostri fratelli minori» considerandoli come potenzialmente aperti anch’essi a una loro elevazione e funzione piú alta). Sicché nessuno che abbia conosciuto veramente Capitini è uscito dai suoi incontri, dalla sua amicizia, dalla sua frequentazione, uguale a come era prima di conoscerlo e di frequentarlo, ma migliorato, portato ad un livello maggiore, piú consapevole delle sue potenziali qualità e del dovere di svilupparle anche se erano dirette (Capitini piú che discepoli voleva amici e soggetti vivi di colloquio e discussione), come in molti di noi suoi amici, in prospettive ideali e pratiche diverse dalla sua[2].

Perciò egli fu – non solo professionalmente (fu a lungo professore universitario di pedagogia e di filosofia morale) – grande educatore, grande sollecitatore al meglio ed al nuovo, ad una teoria mai separata dalla prassi e ad una prassi non attivistica, ma illuminata dalla forza della persuasione («il sentimento senza la persuasione è nullo», diceva il suo amatissimo Leopardi, ed egli avrebbe potuto dire ciò anche dell’azione e aggiungere che la persuasione è nulla se non è esercitata coerentemente nella prassi, nell’azione).

Cosí dovrà dirsi che questa singolare, originalissima personalità – come è stato detto da Norberto Bobbio nella bellissima introduzione al volume postumo di Capitini, Il potere di tutti (libro che è ancora una prova del suo impegno teorico, pratico, etico-politico, proprio alle soglie della morte, applicato a un precisissimo tema di prefigurazione e inizio di una nuova società antiautoritaria, antigerarchica, antidogmatica, tutta costruita dal basso dove premono le forze piú oppresse e frustrate ed autentiche – fu uomo politico e pratico (senza essere un puro politico) e insieme pensatore (senza essere un puro «filosofo») e religioso (senza essere un sacerdote e semmai tendendo al profetico) e poeta (senza essere un puro letterato professionale).

Ma quali sono le idee-forza centrali nella prospettiva di Capitini, dominate da un primario afflato religioso nuovo, etimo profondo di tutta la sua problematica? Lungo sarebbe (e rimando chi ne voglia una lucida esposizione al ricordato saggio di Bobbio valido anche per l’indicazione storica della formazione e dello sviluppo e delle consonanze sempre originali delle idee di Capitini fra idealismo, Croce, Gentile, esistenzialismo, elementi kantiani, kierkegaardiani, e aggiungerei di Michelstädter, con retroterra di lezioni rivissute in un senso nuovo e originale: la Bibbia dei profeti, il Vangelo, Francesco d’Assisi, Mazzini, Leopardi), lungo sarebbe dipanare esaurientemente il complesso e dinamico (ma piú per strati di approfondimento, a livello di esperienze nuove e vissute, che per precisa successiva costruzione filosofica-sistematica) mondo ideale, teorico-pratico di Capitini.

Soprattutto pensando alla direzione della loro commutazione in tensione espressivo-poetica (su cui ci fermeremo nell’ultima parte di questa conversazione) sarà sufficiente indicarne la direzione essenziale e le punte che culminarono in uno dei due litri utilizzati da Valentino Bucchi (La compresenza dei morti e dei viventi) e che già trovarono consistenza essenziale nelle forme poetiche del secondo (Colloquio corale), che, mentre riepilogano le posizioni già in atto in sede meditativa, ne prefigurano lo sviluppo finale con la forza moltiplicatrice e anticipatrice della tensione poetica. Dell’importanza della tensione poetica egli stesso era del resto ben consapevole se in uno scritto del 19 agosto 1968, intitolato Attraverso due terzi di secolo[3] diceva: «Se dovessi indicare i punti dove ho espresso la tensione fondamentale, da cui tutte le altre, del mio animo per l’interesse inesauribile agli esseri e al loro animo perché ad essi sia apprestata una realtà in cui siano tutti piú insieme e tutti piú liberati, segnalerei alcune righe di un mio libro poetico, Colloquio corale (sulla festa), nel quale ho ripreso accentuando la compresenza, un modo di esprimersi lirico già presentato negli Atti della presenza aperta»[4].

Dunque già in Colloquio corale del ’65 Capitini sentiva di avere espresso la sua tensione fondamentale e il denso circolo centrale della sua prospettiva fra la maturazione precedente (dal primo libro del ’37 Elementi di un’esperienza religiosa, a quello del ’42, esemplare per intensità, Vita religiosa, al libro «lirico», Atti della presenza aperta, del ’43, alla Realtà di tutti, del ’44, a Religione aperta del ’55) e l’approfondimento successivo fino alla Compresenza dei morti e dei viventi del ’67.

La sua tensione e prospettiva fondamentale era segnata da parole essenziali convergenti: apertura infinita, contro ogni chiusura (egoistica, dogmatica, autoritaria, conformistica rispetto a una società ingiusta e a una realtà crudele ed angusta), presenza (la presenza dei soggetti e del soggetto supremo, il Dio infinitamente aperto, continuamente presente nell’intimo e nell’agire intimo-pratico degli uomini); il tu appassionato rivolto alle singole persone e a tutte le persone al di là dei loro limiti; il tu-tutti che legava appunto solidamente ogni piú intenso rapporto di amore coi singoli a una sua destinazione di rapporto corale, senza esclusioni; la realtà nuova e liberata dai limiti del dolore e della morte (come dall’egoismo, dall’odio, come dalle rigide e tradizionali categorie puramente spazio-temporali); la libera aggiunta religiosa all’azione di forze piú immediate politiche, la compresenza dei morti e dei viventi nella continua produzione dei valori (quasi nuova e superiore categoria filosofica-pratica), non tanto da conoscere e descrivere quanto da attuare continuamente con la pratica dell’apertura, del tu-tutti, dell’amore, della liberazione, della non menzogna e della non violenza: essenziale elemento di un amore e di una battaglia che – mentre non accetterà mai (dunque Capitini non era un pacifista innocuo, ma un combattente strenuo col metodo non violento[5], non predicava un dolciastro amore idillico ed inerte, ma una ribellione e una lotta continua per la trasformazione intera della società e della realtà) la sopraffazione dei potenti, l’ordine ingiusto (magari ammantato di alte parole formali di libertà, di democrazia e magari di socialismo), lo statu quo dei beati possidentes – si propone (anche con l’uso di particolari «tecniche non violente» di tipo gandhiano e di nuova escogitazione personale) di agire rifiutando sempre – e sin da ora – l’uso della violenza, fisica e morale, la soppressione e la sopraffazione dell’avversario e del dissenziente, sempre per lui persuadibile e recuperabile nel suo meglio. Con il risultato di una affermazione dei valori sottratti a quello che Capitini considerava un circolo chiuso: violenza chiama violenza, potere oppressivo chiama altro potere oppressivo, e cosí non si esce mai, a suo avviso, da una logica vecchia e dalla legge per lui esecrabile della distinzione tra fini e mezzi. Egli invece voleva nuovi fini e nuovi mezzi coerenti; e se il fine è una società e realtà liberata dall’odio e dall’ingiustizia, dall’autoritarismo, dall’utilitarismo, dal prevalere della forza, coerente ne deve essere per lui il metodo, anche se ciò (Capitini ben lo sapeva) esige impegno lungo, eroicamente paziente, sacrificio maggiore nei persuasi di tali fini e di tali mezzi, ma (a suo avviso) tanto piú profondamente assicura poi la durevolezza dei risultati.

Il tema della compresenza dei morti e dei viventi riassumeva poi in sé tutta la profonda e affascinante problematica e tensione di Capitini: lí era la forza massima (e a suo modo sconvolgente) della sua tensione di novità, di rottura, di apertura, di non accettazione, di accusa addirittura alla stessa realtà cosí come è stata ed è, chiusa nelle categorie spazio-temporali, dominata da leggi crudeli (il pesce grosso che mangia il pesce piccolo) e dalla morte dei singoli di fronte a cui Capitini resta impersuaso, supremamente dolente, scontento, lacerato, mentre accetta con serenità la prospettiva della propria morte.

Tanto che la sua lotta per una nuova realtà – mentre tende a recuperare alla sua costruzione e consistenza gli esclusi, gli emarginati, i dementi, gli sfiniti, i malati (che un puro attivismo non considera, puntando solo sull’immediato agire pratico dei forti, dei sani, dei vitali) – su tale direzione investe appassionatamente la suprema esclusione della morte, batte contro questa suprema barriera e cesura, non si accontenta della religione del ricordo, ma postula e promuove una nuova dimensione della realtà in cui gli stessi morti realmente collaborano alla produzione dei valori.

Dunque la lotta di Capitini parte anzitutto da una tragica coscienza del supremo limite intollerabile della morte, non l’accetta e non se ne consola con la saggezza di qualsiasi tipo, parte dalla consapevolezza acutissima e leopardianamente sofferta della ostilità della realtà naturale come essa è (pur apprezzandone gli aspetti di bellezza, di vitale freschezza ed energia), ne accusa i limiti, la crudeltà, la finitezza, come accusa il «mondo», i limiti egoistici, meschini, belluini degli uomini. Cosí, contestatore e rivoluzionario non violento (ma in tal modo consequenziario e radicale) in campo politico-sociale, Capitini contesta e vuole rivoluzionare e trasformare, aprire anche la stessa realtà naturale, convinto che un diverso modo di concezione e di azione da parte dell’uomo, la persuasa attuazione di un diverso comportamento di amore, di nonviolenza, di nonmenzogna, di apertura assoluta, di vissuta e operante persuasione della compresenza, porterà anche la realtà ad adeguarsi ad aprirsi, a liberarsi dei propri storici e attuali limiti. L’animo suo «arde» (è una sua parola emblematica) verso questa totale trasformazione della realtà. E se tale prospettiva può chiedere e provocare discussione e dissenso in altre prospettive teoriche e pratiche (molti di noi fummo con lui dialoganti e anche profondamente dissenzienti), a me pare che tale supremo sforzo trasformatore sia cosí originale e ispirato che anche chi non ne accetta, come me, lo sviluppo e le conclusioni, non può non avvertirne non solo il fascino profondo, ma la spinta a non accontentarsi mai delle cose tutte come sono, non può non considerarlo alimento, comunque, di una vita piú profonda, di una serietà piú assillante, di un approfondimento continuo dei propri valori e delle proprie persuasioni, degli stessi ardui problemi che pone di per sé anche la sola costruzione di una nuova società veramente umana.

Tutta questa trascinante pressione di idee, di volizioni, di intuizioni profetiche e rivoluzionarie hanno già spesso, anche negli scritti piú dimostrativi e teorici di Capitini, un afflato, una tensione espressiva, e in essi l’immagine, il ritmo, poetico o prepoetico che si voglia dire, sono sempre pronti a scattare intorno alle punte piú intense del suo discorso.

Pensiero, prassi e tensione lirica si intrecciano nella sua personalità e nelle sue opere anche se egli esplicitamente considerò piú propriamente condotti su di una direzione di «fare lirico» il libro del ’43 Atti della presenza aperta e Colloquio corale.

Del resto converrà ricordare come nella stessa concezione generale di Capitini l’arte e soprattutto la poesia e ancor piú la musica siano sempre sentite e fatte valere – fra impulsi romantici e posizioni piú moderne e novecentesche a lui piú vicine (si pensi non solo nella nostra letteratura primonovecentesca a certi vociani come Jahier o ad Onofri, ma su un piano europeo, e in forma di consonanze con esperienze ignote a Capitini, a certe posizioni e attuazioni di Dylan Thomas specie in Morti e ingressi) – e siano sentite, ripeto, come forme che sporgono da questa realtà limitata e difettiva e costituiscono come il preannuncio e l’alba della realtà liberata e della «coralità», della compresenza. Forme e atti che, con la loro tensione e consistenza, combattono il mondo chiuso e la sua finitezza e frivolezza, sia per la loro destinazione di superiore serenità severa e solenne, sia per la loro stessa consistenza di forma attuata poiché la parola, il linguaggio poetico e musicale sono già un modo di dar nuova forma a un nuovo pensare ed agire, a una realtà diversa.

Apertura e spiragli intensi di nuova luce sulle cose esistenti (e, in queste, rivelazione dei loro aspetti piú intatti, autentici familiari e sublimi insieme), già espressione di una luce che emana dalla nuova realtà promossa ed attesa, la vera poesia e la vera musica alludono e già iniziano questa nuova realtà, urtano e superano già il limite della morte, della finitezza, dell’ostilità del «mondo» e della realtà chiusa. E si rilegga in proposito questa pagina di Atti della presenza aperta:

Le musiche che per gioco si scrivono e si ascoltano, si disperdano nelle pieghe del mondo.

Strumenti elaborati con dotta fatica, guardati con tensione trepida, rifiutatevi a ciò che è fatuo.

Quando procede l’alta musica, tutto ciò che è piú del mondo viene ed ascolta. Nelle pause il silenzio volge uno sguardo sovrano sul mondo.

Dall’intimo sale allora l’elogio a chi nella ricerca ebbe pazienza e continuò.

Chi ha coltivato il proprio nome per se stesso, si ritrova anonimo.

Scenda sui corpi e sulle cose un persuaso agire.

Eterna ispirazione alla coscienza che si credeva isolata.

Nell’altezza delle musiche, del pensare, della bontà, l’infinito vede il suo bisogno corrisposto.

Combattendo con ciò che misconosce la tensione al valore.

Meglio allora delle musiche vacue, lo scroscio delle bianche acque e il volo del vento sulle vette[6].

Qui già una poetica si incarna in una tensione espressiva-lirica coerente ed organica, entro le forme piú condensate di certa personale consonanza con certi modi di piú profondo ermetismo ed esistenzialismo (il valore alle pause, al silenzio, alla poesia e alla musica che dice no alla realtà, ma in Capitini senza evaderne e con un superiore a una nuova realtà).

Ancor piú sicuro e centrale, nell’esigenza capitiniana di comunicazione a tutti e pur di sollecitazione non banale e prosastica, nel suo vagheggiato incontro di familiarità, di quotidianità e di solennità e di voce alta, solenne, nel suo bisogno di presenza personale e di compresenza corale (si badi bene al titolo), è il libro Colloquio corale in cui la tensione lirica condensa e rilancia, con superiore concentrazione, le esigenze essenziali della visione riflessiva-operativa dell’autore, mentre di questa tensione lirica appare la sua necessità nel moto stesso del pensiero attivo di Capitini in cui pensiero e poesia si alleano e si ricaricano, in cui la poesia traduce e commuta in forma piú alta la tensione accumulata nel farsi del suo intero mondo spirituale.

Non esamineremo minutamente il libro, ma ci contenteremo (anche se tutto Capitini, scrittore e lirico, singolare e originale, senza essere un letterato professionale, meriterebbe uno studio attento di cui io stesso mi sento a lui debitore come lo meriterebbe la sua breve, ma intensa attività critica sul Paradiso dantesco, su Leopardi, sulle componenti di realismo e di serenità della poesia italiana) di ripercorrere insieme la tessitura, la partitura, rileggendone qualche brano, significativo insieme per la sua tensione lirica e per la sua intera tensione spirituale.

L’inizio ed il punto di riferimento essenziale è il tema della festa (e del suo mattino) espresso nella prima parte (il Coro) che sarebbe tutto da rileggere per la sua densità e ricchezza di motivi essenziali entro il cerchio della festa in cui si dispiega il motivo del carattere superiore corale, superiore all’utilità, appunto della festa, l’incontro con i morti[7] e la morte, l’impersuasione di fronte ad essa[8], l’accusa che ne sorge violenta[9], la fede e l’attesa di una nuova realtà liberata (in cui tutti siano uniti per sempre), e si esalta la bellezza del tutto, la superiorità dell’inizio rispetto al ricordo («Tutto, tutti uniti per sempre, oltre lo sguardo ad ogni forma che passa…» «Tutti com’è piú bello di tutto, inizio com’è piú bello di ricordo!») contrapposto alla falsa «saggezza» di un passato in cui l’amore era insufficiente[10], e ribadito nella certezza che il presente si può aprire come già anticipa la festa[11], in cui tutti qui sono presenti compresi gli esclusi[12], nella certezza che una nuova realtà comincia con un amore esteso anche ai nemici, all’offensore[13], e nell’invito a trar dalla comunione della festa la liberazione suprema della realtà[14].

Poi con un movimento non rigidamente successivo, ma con riprese e ritorni fra ciò che si combatte (la vecchia società e realtà) e ciò che si afferma (la nuova società e realtà), si presenta l’Episodio, piú autobiografico e piú centrato sulla persona e sulle persone, sui loro dolori profondi e superati con la compresenza (come nella lirica sulla morte del padre[15], con la liberazione intima che aprirà («quando? quando?») la realtà divenuta «obbediente» all’agire persuaso della «compresenza»[16], la rappresentazione del dovere di lottare contro un ordine ingiusto, di resistere alle «mille pazzie della guerra» nella certezza che anche questo aspetto piú folle della realtà attuale sarà superato dalla nuova apertura.

Mentre il breve Canto concentra i termini antitetici delle ragioni del pessimismo di fronte alla realtà chiusa ed ostile, del dovere di lottare col mondo[17], e della superiorità delle persone, del loro valore, del colloquio fraterno che apre e salva.

Al dolore degli esseri crocifissi nella realtà attuale e sbagliata ritornano insistenti le Invocazioni: una specie di Giobbe moderno che viene moltiplicato nelle voci dirette e trasposte delle molteplici forme dell’infelicità: il sofferente, il demente, lo sfinito, il sottoposto a tortura, il colpevole verso il fratello col peso enorme del suo rimorso, e che poi si innalza e si redime, non nella biblica ammirazione per la suprema forza e potenza divina, ma nella certezza dell’amore infinito. Da questo contrasto attuale lo scrittore è rimandato alla storia, al passato degli uomini e si apre appunto la sezione poetica intitolata La storia, come avvio ad una nuova cosmogonia, ad una nuova creazione del mondo e della realtà in cui l’intervento di personaggi esemplari nel passato si configura come presentizzati momenti di apertura (Gesú, Francesco d’Assisi, il mitico Orfeo col suo canto-amore liberatore di Euridice, Mosè che infrange gli idoli, Gandhi), presto rinchiusi e traditi dalle istituzioni, dalle divisioni fra gli uomini, dal loro non mutare, dalla divisione fra terra e Cielo[18], ma convergenti, stimolanti nella loro esemplarità al di là della croce del passato verso la liberazione totale dell’uomo e della realtà (morte o liberazione), verso la compresenza infinita, assicurata dal «profondo mistero della nonviolenza, comunione con tutti in un atto».

Dopo questa storia per rotture, aperture stimolanti e insufficienti, sorge, con piú forte slancio lirico, l’Inno, che esalta piú direttamente il simbolo della festa e la concretezza della realtà liberata in cui l’animo rompe le vecchie categorie spazio-temporali, la legge dell’utile e dell’egoismo, volge le spalle al passato e guarda al futuro, all’impossibile, alla continua lotta contro ogni potenza terrena e ultraterrena (fino alla liberazione dei dannati della terra e del mitico inferno crudele) alla gioia che non è tale «se non si è tutti nel silenzio e nel canto» e celebra la realtà liberata[19] dall’amore che è un «rinascere insieme».

Infine il dinamico e complesso percorso lirico si chiude: al mattino della festa con cui il libro si era aperto, corrisponde ora, con nuova pienezza e sicurezza, il motivo della sera della festa che riassume tutti i suoi significati e risultati e li risolve nell’augurio della «buona notte» a tutti, nell’augurio del sonno che tutti unisce[20].

E chi non ripensa in questi ultimi versi alla grande suggestione del finale da lui cosí amato della Passione secondo Matteo di Bach («Ruhe sanfte, sanfte Ruhe») che Capitini evidentemente volle in qualche modo riecheggiare nel fare dimesso e solenne, familiare e sacro con cui volle sciogliere il suo libro, messaggio di una nuova passione e redenzione volitiva e profetica, concentrata e moltiplicata dalla poesia che tende alla musica?

Ascoltiamo ora le sue parole già avviate alla musica e ispiratrici di musica nella composizione musicale di Valentino Bucchi, che fu attratto, penso, dal vivo fascino di tutte le sue idee-azioni, ma anche dall’afflato lirico e premusicale della sua opera.

Cosí anche in questo concreto atto di omaggio che il compositore ha certo inteso rendere a lui, avvertiremo la presenza di Capitini, collaboratore ancora e sempre dei nostri pensieri e atti migliori, come accade e accadrà non solo a quanti lo conobbero e l’amarono, ma anche a quanti ancora incontreranno le sue opere e, attraverso queste, la sua personalità e la sua persuasa parola.


11 Si veda del resto quanto ne dice Capitini in Attraverso due terzi di secolo (in «La Cultura», 10, 1968, dove ricorda che il movimento prese corpo «dopo l’accordo che feci con Walter Binni prima, e poi con Guido Calogero») e si vedano i miei «ricordi» in Antifascismo, resistenza nella provincia di Perugia, Perugia, 1975, pp. 39-42. Nel ’43 Capitini non entrò nel Partito d’Azione in cui confluivano molti dei «liberalsocialisti». Io, con altri, entrai nel ricostituito Partito socialista in posizione di «concorrenza» antistalinista col Partito Comunista. Per Capitini e per alcuni di noi, diversamente da altri, il liberalsocialismo non era un contemperamento di liberalismo e socialismo, ma la strutturazione di una società radicalmente socialista entro cui riemergesse una libertà anch’essa nuova e ben diversa dalla libertà formale e ingannevole dei sistemi liberal-capitalistici. Il nostro liberalsocialismo aveva al centro il problema della «libertà nel socialismo» e non quello socialdemocratico del «socialismo nella libertà». Nella qui citata frase di Capitini si faccia attenzione a quel «prima con Walter Binni», e poi nel volume di Capitini Antifascismo tra i giovani (Trapani 1966) a p. 97, a quanto egli raccontò all’inizio del liberalsocialismo come movimento clandestino attivo: «Dopo qualche mese che i miei Elementi erano usciti (nel dicembre del 1936) Walter Binni mi disse: “Perché sulla base di ciò che hai scritto negli Elementi, nell’ultima parte specialmente, e indipendentemente dal lato religioso, non cerchi di stabilire una collaborazione precisa di vero e proprio Movimento?”». «Riflettei sulla proposta e concretai alcuni punti programmatici, ecc.» E ciò dico non per esibizionismo personalistico, ma per ribadire l’origine «perugina» del movimento liberalsocialista prima dell’accordo con Calogero, ed anche la prima impostazione del movimento che era piú consona alle nostre istanze (di Capitini e di me, alla cui gioventú e al cui carattere si deve, come dice Capitini, l’idea di passare da teoria a prassi) rivoluzionarie e non «terzaforziste» e moderate, alle sue consonanze con la costituzione sovietica del ’37, anche se essa era – e lo sapevamo – null’altro che un pezzo di carta rispetto alla prassi staliniana proprio nel periodo delle «purghe» feroci che i nostri amici comunisti non volevano «vedere» mentre apparivano poco sensibili alla costituzione ricordata, cosí davvero «liberalsocialista» nella nostra accezione di quella parola cosí presto divenuta ambigua.

2 In alcuni di noi, suoi amici e collaboratori etico-politici, il problema «religioso» e quello stesso della nonviolenza non avevano il valore (del resto ben coerente in lui) che avevano in Capitini.

3 In «La Cultura» cit.

4 Capitini si riferisce al seguente brano di Colloquio corale:

La mia nascita è quando dico un tu.

Mentre aspetto, l’animo già tende

andando verso un tu, ho pensato gli universi.

Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.

La casa è un mezzo ad ospitare.

Amo gli oggetti perché posso offrirli.

Importa meno soffrire da questo infinito.

Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi viventi.

Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.

Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.

Ardo perché non si credano solo nei limiti.

Dilagarono le inondazioni, ed io ho portato nel mio intimo i bimbi travolti.

Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli

mentre il tempo taglia a squadra cose astratte, mi trovo in ardenti segreti di anime.

Torno sempre a credere nell’intimo.

Se mi considerano un intruso, la musica mi parla.

Quando apro in buona fede l’animo, il mio volto mi diviene accettabile.

Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.

Do familiarità alla vita, se teme di essere sgradita ospite.

Quando tutto sembra chiuso, dalla mia fedeltà le persone appaiono come figli.

A un attimo che mi umilio, succede l’eterno.

La mente, visti i limiti della vita, si stupisce della mia costanza da innamorato.

Soltanto io so che resto, prevedendo le sofferenze.

Ritorno dalle tombe nel novembre, consapevole.

Non posso essere che con un infinito compenso a tutti.

(Colloquio corale, Pisa, Pacini Mariotti, 1956, p. 13).

5 Poco prima di morire, in un ultimo dialogo mi disse: «Anch’io sono, con metodo diverso, ma assolutamente vicino agli eroici combattenti vietnamiti».

6 Atti della presenza aperta, Firenze, Sansoni, 1943, pp. 112-113.

7 «Scendiamo nella vita col vestito della festa, indossato al cospetto dei morti; è con noi il silenzio dei cimiteri l’ultimo verso delle epigrafi» (9, p. 4).

8 «Duole mirare qui in atto, che le cose consumate nel tempo,

se ne vadano esterne là, dove vanno gli eventi passati,

sfuggendo anche al ricordo, e non rispondono piú.

Cade una polvere sopra gli anniversari, lo slancio e il volto di gioia

Trapassan, gli occhi si disfanno dalla bruna luce profonda» (14, p. 5).

9 «Alziamo l’accusa anche alla luce, che accetta questo trapasso,

e rimira solo ciò che permane, e non accompagna chi è vinto» (15, p. 6).

10 «Per millenni è durata la saggezza, di ripetere furiosamente amore,

quanto piú infuriava la morte, per continuare la nascita e la vita» (26, p. 8).

11 «Ecco accompagnamoci dallo spazio e dal tempo, da forme finora immutate,

e voi alberi dalla vostra immobilità, voi animali a cui batte il cuore,

non restate chiusi nei nidi, non seguite le vecchie abitudini;

meglio prender su i figli già pronti, e che non guardino indietro:

questo presente può aprirsi a realtà che non genera per la morte» (28, p. 8).

12 «Qui noi siamo tutti, con reverenza e gioia pensosa;

come piú bella è la parola qui, divenuta compresenza di tutti,

donando le cose del mondo, ha chi ha somiglianza con i morti

gli stroncati, ai disfatti, ai rimasti con voce afona,

perché tutto sia di tutti, cosí come fa la festa» (30, p. 9).

13 «Perché andare lontano, se qui è il sommo che si apre?

Bisognava salutare con letizia il mattino pur dopo l’insonnia,

sperare sempre, consumare dentro l’offesa ricevuta,

fino a poter sorridere fra sé, e incontrare la figura dell’offensore

umana con i suoi abiti a bozze, e il colletto sgualcito» (35, p. 10).

14 «In alto, o tutti compagni, liberando anche il cielo

dalle sue consuetudini, alte sopra il nostro capo,

lassú, portando uno squarcio raggiante di fanciullezza,

a sciogliere le ripercorse ombre dei mondi isolati,

aprendo una musica che unisce tutti cosí come il cuore vuole» (30, p. 10)

15 «Suonava la campana a morte nel pomeriggio di sole o padre mio,

per te. La luce vigorosa stava sui tetti come da fanciullo ho visto il tuo

sorriso di uomo forte.

Nell’aria tutto era oro azzurro e verde, e un lamento si è levato per te.

Tu sei morto, e dov’è la tua prestezza, il tuo comandare? Stai

allungato ed immobile.

Non mi darai piú la carezza sul capo? Non ti porrai davanti a me

mentre lavoro?

Non è possibile fare altro verso di te? Verrò alla tua tomba, terrò la

Tua immagine.

Mi tendo ad un fare che innalzi me, te e tutto.

Solo cosí posso rasserenarmi, ritrovare un volto dopo le lacrime.

Tu ed io operosi, bello come eri, e fuori di quella cassa dove ti

hanno messo.

La liberazione dai limiti del passato.

C’è qualche cosa di piú della terra, e delle sue tre o quattro

dimensioni. Siamo al culmine, viviamo quest’ombra che si è diffusa.

Siamo di là dalla memoria e dal suo piangere» (2, p. 14).

16 «E allora tutti gli esseri, non si chiuderanno piú nel quotidiano.

Liberi di vivere, angelici e sereni, come le musiche.

E la realtà imiterà ubbidiente: quando? Quando?» (3, p. 15)

17 «Forse ha ragione chi piange, la realtà non ascolta è crudele.

Non per me, accetterei anche i colpi, ma per gli esseri che sono qua e là...

No, non si creda, non ho fatto la pace col mondo.

Esca prima il mondo dal suo non rispondere mai» (p. 21).

18 «Gesú passò per i luoghi, apriva gli sguardi cupi, le membra rattrappite e il pugno degli uomini, con mansueta femezza, come avendo autorità da prima di ogni chiusura.

Ma quando ogni sofferente cercò Gesú vicino, per essere come lui, ed amare anche dalla croce, gli fu risposto che egli era asceso al cielo, in una corona di raggi solari» (pp. 40-41).

19 «Non fate un estremo omaggio ai morti, c’è altro.

Anche il suono di campane prepara soltanto,

e parlando le orchestre, ecco un passo sublime.

Chi è piú consumato dal mondo, lo sa.

Amare, rinascere insieme, cielo aperto» (p. 57).

20 «Buona notte ad amici e ad ignoti,

ai morti riveduti nel lampo della festa:

come ognuno ama in atto tutti,

cosí tutti il sonno unisca, disceso senza lotta:

entriamo pacati nella notte grati alla festa,

dopo esserci aperti a lei» (p. 62).